L’energia umana va protetta. Si può sintetizzare così quanto emerso lo scorso 20 febbraio durante il secondo appuntamento dei Value@Work Open Talks promossi dall’Istituto di Studi Superiori sulla Donna, nell’ambito dei quali si è discusso di come l’Intelligenza Artificiale stia impattando sul mondo del lavoro. ​ ​Quali sono le conseguenze della trasformazione tecnologica in atto? Come sta evolvendo il lavoro con l’AI? Come garantire una equilibrata interazione tra AI e persone? Durante l’incontro abbiamo provato a rispondere ad alcune di queste domande, che necessitano però di una riflessione preliminare sulla possibile creazione di disoccupazione tecnologica in maniera proporzionale rispetto all’innovazione. 

Nel 2023, l’Employment Outlook pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha riportato lo stato dell’arte in merito alle ultime tendenze e alle sfide del mercato del lavoro per i prossimi anni, confermando come il lavoro sia destinato a cambiare in tutte le organizzazioni, soprattutto a seguito dell’avvento dell’Intelligenza Artificiale. L’AI, infatti, sembra essere diversa dai precedenti cambiamenti tecnologici digitali, in particolare per tre ragioni: espande significativamente la gamma di compiti che possono essere automatizzati, è una tecnologia applicabile a tutti i settori e le professioni, lo sviluppo degli algoritmi di AI procede a una frequenza mai osservata prima. 

Le intelligenze artificiali stanno invadendo il mondo produttivo secondo due direttrici. Dal basso, proseguendo il processo tipico delle rivoluzioni industriali, in cui le macchine si sostituiscono alle persone nei processi routinari e “robotizzabili”, che la tecnologia può compiere in modo più veloce, efficiente, efficace, sicuro, produttivo. Questo processo di sostituzione avviene anche dall’alto. La tecnologia può, infatti, gestire i processi elaborativi e decisionali, applicati a molti dati. L’AI generativa è ormai in grado di produrre contenuti, immagini, codici, in modo sempre più simile a come potrebbe farlo un essere umano. La rivoluzione che avremo quando l’AI generativa entrerà nei software di produttività individuale sarà dirompente, forse simile a quando i computer sono comparsi sulle scrivanie delle persone, ma con una velocità di inserimento nei processi lavorativi molto più alta.  

Ma quale sarà l’impatto finale sul lavoro? La verità è che ancora non lo sappiamo.  

Da sempre all’ingresso delle tecnologie si sono contrapposte due visioni che vedono, da un lato gli economisti ottimisti che guardano con fiducia al progresso, credendo nelle nuove opportunità di lavoro che prevedono mansioni più complesse e tecnologicamente più sofisticate; dall’altro lato, i pessimisti che sostengono come la frequenza elevata dell’innovazione attuale acceleri l’obsolescenza delle competenze e delle professioni portando ad una marginalizzazione economica, sociale e politica dei lavoratori meno qualificati.  La contrapposizione dei punti di vista “pessimista-ottimista” potrebbe però trovare un punto di incontro in uno spazio di mezzo, dove diventa centrale il connubio tra uomo e macchina, destinato a diventare sempre più profondo e immersivo. L’idea dell’alternativa uomo-macchina è “antistorica”: nel corso degli anni abbiamo assistito a una serie di innovazioni che hanno sempre aperto a nuovi scenari, a nuovi lavori e nuovi dibattiti e non è la prima volta che assistiamo a cambiamenti dettati del flusso tecnologico, sebbene la rivoluzione in atto abbia tratti particolarmente incisivi. Il lavoro è sempre più fortemente influenzato dalla tecnologia e indirizzato non sulla contrapposizione bensì sul rapporto uomo-macchina. L’uso sempre più diffuso di strumenti d’Intelligenza Artificiale nei contesti lavorativi, infatti, crea nuove opportunità di apprendimento reciproco tra persone e macchine e permette di combinare le capacità predittive degli algoritmi con l’esperienza e l’intuizione razionale degli esseri umani. Grazie all’automazione dei processi e delle procedure, i lavori ripetitivi e l’elaborazione di grandi quantità di dati possono essere affidati alle macchine, liberando gli esseri umani da compiti noiosi e consentendo loro di concentrarsi su attività di valore aggiunto. Le competenze umane vengono aumentate dalla macchina e la macchina impara dagli esseri umani; da questo punto di vista, le persone non devono più pensare a loro stesse come inquadrate in una singola professione, ma come portatrici di un “set di competenze” che evolvono nel tempo. Saper imparare, dunque, è elemento imprescindibile di questa rivoluzione in atto: il rapporto uomo-macchina rende sempre più le persone dei “conduttori digitali”, chiamate ad adeguarsi velocemente ai cambiamenti del mercato; al contempo, la tecnologia diventa una sorta di estensione della persona stessa, aiutando a gestire meglio le attività quotidiane.  

LA SFIDA UMANA NELL’EPOCA DELLA TRASFORMAZIONE DIGITALE ATTRAVERSO LE COMPETENZE 

Il processo produttivo si innova profondamente solo nella misura in cui le macchine sono al servizio e collaborano con l’essere umano. È in questa collaborazione, infatti, il valore aggiunto dei nuovi processi di trasformazione, in quell’area in cui il lavoro è ibrido, le persone guidano l’apprendimento delle macchine e la tecnologia aumenta la capacità delle persone di analizzare e comprendere i fenomeni, memorizzare informazioni, studiare scenari, porre domande nuove, immaginare il futuro. 

Sicuramente ci sono lavori che già nel breve periodo verranno svolti dalle macchine. Altri verranno sostituiti molto più tardi. Altri ancora, probabilmente, resteranno a pieno appannaggio dell’essere umano. Tra questi ultimi sicuramente rientrano quelli che riguardano l’arte, la creatività (che è cosa diversa dalla capacità generativa dell’intelligenza artificiale), l’etica, la giustizia, il pensiero laterale, l’empatia, competenze tipiche delle persone. Provare a “competere” con le capacità delle tecnologie di intelligenza artificiale, in questo quadro, non serve e sarebbe forse controproducente. Se è vero, però, che sono le competenze a restare umane, è vero anche che i tempi e le modalità di sviluppo di queste ultime dovranno essere completamente diversi dal passato: un tema fondamentale, infatti, è che le persone potrebbero non essere in grado di adeguare le proprie competenze tanto velocemente quanto richiede la trasformazione in atto, creando le condizioni per la creazione della motivazione intrinseca, quella che ci spinge ad agire per il piacere di quello che facciamo, riconoscendo il valore del contributo umano. Significa creare spazi in cui sviluppare il proprio potenziale, in cui esiste il tempo per l’innovazione. 

OBSOLESCENZA DELLE COMPETENZE SPECIFICHE, QUALE POTENZIALE SVILUPPARE? 

L’accelerazione dell’innovazione significa anche la rapida obsolescenza delle competenze e delle professioni che richiede un diverso modello di formazione scolastica, universitaria e professionale. Le competenze digitali e di utilizzo dell’IA diventano la base per qualunque professione del presente e del futuro e devono necessariamente trovare il loro spazio in tutti i percorsi formativi (tecnici ed umanistici), non rimanendo confinate nelle discipline scientifiche. Parallelamente, accanto ed insieme alle competenze tecniche, divengono cruciali, come detto, le soft skills che le tecnologie non possono realmente sostituire: pensiero laterale, problem setting, creatività, empatia, etica, leadership, capacità relazionale e comunicativa.  Ma, ancora, questo percorso formativo e di sviluppo deve essere costante e continuo nella sua radicalità, accompagnando le persone verso la consapevolezza e lo sviluppo. 

Inoltre, l’introduzione di sistemi di algoritmi capaci di sostituire processi complessi deve essere presidiata, controllata e indirizzata, per favorire un loro utilizzo consapevole e virtuoso. Lo sviluppo di algoritmi che regolino business e sistemi complessi ci espone, infatti, al rischio di bias pericolosi. Ne possiamo identificare almeno tre tipologie:  

  • La prima riguarda il contesto: semplicemente gli algoritmi non ce l’hanno, non riconoscono o interpretano la cultura in cui sono inseriti, si comportano nello stesso modo in qualunque contesto vengano lanciati, replicando i principi e la cultura in cui sono stati sviluppati; 
  • La seconda riguarda i bias e i pregiudizi dei programmatori che si incorporano naturalmente nell’algoritmo che realizzano;  
  • La terza tipologia, infine, riguarda i pregiudizi sociali insiti nei dati: se si basa su tutti i dati storici, senza filtri e considerazioni, l’algoritmo replicherà e potenzierà i pregiudizi e le ingiustizie dei sistemi sociali in cui è inserito. 

LE ORGANIZZAZIONI (COMPRESA LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE) NEL POST-DIGITALE 

Allora, diventa fondamentale la supervisione umana sulla qualità, la completezza e la correttezza dei dati di input e sull’affidabilità, l’efficacia e la desiderabilità degli output dell’uso dell’AI, aprendo a nuove dimensioni professionali, più complesse e impegnative, che aggiungano critica all’utilizzo degli strumenti. 

Perché questo accada è fondamentale che anche le organizzazioni (compresa la PA) adeguino approcci e metodologie per apprendere efficacemente dai dati, trasformandoli in informazioni e processi strategici. In particolare, il settore pubblico dovrà sempre di più aprirsi all’ “empatia”, intendendo con questo termine la capacità di anticipare i bisogni e creare valore e soddisfazione del cittadino, mediante un’interazione veloce ed efficace, in altre parole: fattibile. 

Quindi: creazione del valore, empatia, fattibilità. 

CONCLUSIONI  

In conclusione, non c’è una via da seguire, ma c’è un’idea da perseguire. L’Intelligenza Artificiale non è né un bene né un male, è sicuramente un fatto, qualcosa che ci sarà nel nostro futuro perché è già nel nostro presente. Se pensiamo di trattare, limitandoli, gli impatti delle tecnologie di Intelligenza Artificiale, abbiamo perso in partenza. Inseguiremmo il fenomeno come già successo per i dati e ci troveremmo sempre un passo indietro. Per dirla con le parole di Zenone, volendo sottrargli il paradosso di Achille e la Tartaruga, coprire la distanza, seppur piccola, tra noi e l’AI sarebbe impossibile, dal momento che mentre tentiamo di capirla e comprenderla si è già nuovamente trasformata, costringendoci a ricominciare all’infinito.  

L’AI va intesa come un’opportunità. Il tema centrale è che deve essere un’opportunità per tutti perché chi non riuscirà a coglierla sarà marginalizzato, anche velocemente. Un impegno che tutti dobbiamo assumerci è quello di ampliare il più possibile la capacità di accedere ai nuovi strumenti digitali e le conoscenze per arrivare al loro utilizzo consapevole. 

Nel futuro più prossimo, per non dire già da oggi, dovremo chiederci se vale la pena inseguire l’innovazione tecnologica, o se non sia piuttosto il caso di trovare nuove dimensioni di interdipendenza virtuosa, per convivere in un futuro pieno di opportunità e possibilità. Spetta però a noi la responsabilità di utilizzare gli strumenti tecnologici che la creatività umana ci mette a disposizione per costruire in modo consapevole il mondo in cui vogliamo vivere e in cui la persona rimanga il centro e sia il senso di ogni innovazione. 

Condividi su